Giovanni Testori

Periodico

Sutherland, un pittore usa la parola

Se la questione dei pittori che scrivono (e l’altra parallela degli scrittori che dipingono o disegnano) non ha senso alcuno d’esser posta nei termini dell’astrazione, ché significherebbe pur sempre partire dal presupposto che l’assoluto sia meta cui è possibile avvicinarsi od accedere esclusivamente usando un sol mezzo espressivo e di quello facendo la punta di

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Arshile: il canto dell’agonia

Tutta la breve vita di Arshile Gorky, dopo aver un po’ esitato, come in attesa d’una voce o, forse, di un’arcana e definitiva chiamata, sembra correre e precipitare verso il compimento dell’arte e verso la fine corporale; avvenimenti che, quasi, coincidono. I grandi anni del disperato, solitarissimo maestro, armeno di nascita, trapiantatosi ancor bambino in

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Tra i fantasmi dei templi siciliani

La questione degli scrittori che dipingono o disegnano, così come quella dei pittori che scrivono, è stata più volte affrontata, quasi mai, tuttavia, prescindendo dal valore o, quando ne sia il caso, dalla grandezza che un determinato artista ha raggiunto con il mezzo a lui più consono e proprio. Invece, proprio questo bisognerebbe fare. Il

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Disperata umanità dell’ultimo maledetto

Così anche Bacon, questo svergognato, supremo abitatore, rimestatore e cantore dell’umano disastro, è entrato nel regno muto delle ombre; le ombre, intendo, che si muovono all’interno e che, insieme avvolgono la nostra carne offesa, umiliata e demente; quelle ombre che egli aveva adescato e amato per decenni e decenni; quelle ombre che aveva sconfitto, perché

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Canto d’un pittore errante. Nella realtà

Toute ma vie j’ai eu besoin de penser peinture. Così scriveva Nicholas de Staël a Paul Rosenberg, nel febbraio del 1953; quando, cioè, la sua esistenza stava approssimandosi alla fine suicida e la sua arte aveva da anni toccato quell’assoluto verso il quale s’era sempre tesa, con una ferocia pari soltanto alla martirizzante intelligenza. Forse,

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Quando la pittura cerca nel mistero

Questa mostra, nella sua silenziosa e solenne bellezza, una bellezza che giunge indenne, se non ancor più millimetralmente stratificata, fin dal suo 71° ed ultimo numero, il famoso A tire d’aile (1956- 1961) del Centre Pompidou; questa mostra, dicevo, sembrerebbe fatta apposta per scoraggiare quelle letture che, del grande maestro francese, si sono fatte e,

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